3.9.15

Non c’è nessun vero motivo alla base di quanto seguirà. È un bisogno. Spero alla fine non fisiologico.
Tempo fa, qualche annetto di sicuro, ho cominciato a scrivere un racconto (mai finito, tanto per cambiare), che avrei dovuto chiamare, una volta terminato, “Affrancatura semplice”. Una storia semplice appunto( le uniche che riesco a scrivere), che voleva essere una sorta di chiamata per tutti quei napoletani che vivono la loro città di riflesso. Ad ognuno di loro, durante la vita che erano riusciti a crearsi lontano dall’ombra del Vesuvio), sarebbe arrivata improvvisamente una lettera che li invitata o meglio ordinava di rientrare a casa, Napoli, per una serie di motivi che forse ora non è più il caso di elencare e che la memoria non ricorda.
Quell’ammasso di frasi è rimasto nel cassetto. O cassonetto, come dir si voglia.
Qualche giorno fa qualcuno via FB ha postato la lettera di una signora che elencava tutti i luoghi comuni su Napoli ma riusciva a volgerli tutti al positivo.
In molti si sono meravigliati di tale esperimento e qualcuno vorrebbe che la signora vincesse il Nobel per la fantascienza. 
Io non mi sono meravigliato affatto. Può l’acqua calda diventare stupefacente? Chi pipperebbe dalla caldaia o dal boiler? Ma torniamo alla missiva.
Ma quella lettera che tanto (o poco), clamore ha suscitato, non ha messo in moto un bel nulla in me se non farmi capire che era arrivato il momento per raccontare, dopo quasi 20 anni, il mio status di emigrante, in un momento nel quale purtroppo si vivono accezioni del termine molto più drammatiche.
Non lo faccio per avere dei like su FB, che non saprei nemmeno come utilizzare.Se poi qualcuno mi spiega dove si cambiano e quali premi posso avere in base ai Like maturati, mi farebbe un grosso favore. Tra i premi c’è il tostapane? Ditemi di sì. 
Ho un blog sul quale scrivo poco, perché forse ho poche cose da dire al mondo.
Ho un profilo social sul quale profilo poco. Anzi, sembra più un profilo di un asocial network. 
Diciamo che la ribalta non è una luce che mi affascina. 
Scrivo per liberarmi e fare spazio. Scrivo di questo perché forse è un cerchio che si sta chiudendo e non ho ben capito se io sono dentro o fuori quel cerchio. 
Non è un bilancio e nemmeno una resa dei conti. Scrivo dopo tanto tempo, non sapendo perché ho smesso e sapendo ancora meno perché ho ripreso.
È come quando una mattina, senza un apparente motivo, ti svegli anche se non hai ben chiaro che cavolo farai e dove cavolo andrai a parare.
Tutto qui.
La scena non è di quelle più originali di questo mondo ma in tutti questi anni non sono mai riuscito a trovarne un’altra in grado di raccontare meglio quell’istante. E poi, a ben vedere, leggermente diversa dalle altre che abbiamo visto al cinema centinaia di volte, lo è. 
Mi spiego meglio. 
Prendete il classico fortino accerchiato, quello in genere costruito in mezzo al niente e tirato su in fretta e furia giusto in tempo per farsi accerchiare e non lasciare scampo ma scalpo, nella migliore delle ipotesi.
Quelli circondati, genericamente definiti bravi o fessi, in questo caso sono molti. Ma molti veramente. Sono ammassati (nel giro di poco tempo per alcuni di loro quelle “esse” lasceranno il posto alle “zeta”), spaventati, confusi. 
Hanno discreti viveri ma poche munizioni e siccome non le sanno usare(le munizioni dico mentre coi viveri se la cavano decisamente meglio), le hanno buttate tutte fuori dal fortino (le munizioni dico, i viveri quelli se li tengono ben stretti).
Quelli fuori, genericamente definiti in tanti modi, sono quattro gatti ma sanno esattamente cosa fare e dove colpire. Sono armati, ignoranti come sassi. Picchiano, sputano, sparano e urlano come se non ci fosse un domani. E fanno tutto questo nello stesso istante.
In quella landa desolata che poi landa desolata non è, si sentono solo loro. Quelli cattivi.
Anche perché la paura, anche se tanta, non si sente. La paura la si può vedere, sentire no. 
La battaglia dura da decenni se non secoli. 
Si combatte, ci si accoppia (in casi fortunati), si vive quello che la giornata offre e si tramanda. 
Quelli circondati tramandano la paura e la voglia di scappare.
Quelli fuori tramandano la faccia tosta e la voglia di prendersi ogni cosa con le buone o con le cattive. Ma sulle buone non sono sicuro che sia un’opzione attivabile.
Un giorno è toccato anche a me vivere quella battaglia. L’ho vissuta e combattuta per 25 anni circa. Le ho prese sicuramente, non ricordo di averle mai date e ho tirato avanti. Sono stato fortunato. Di certo sulla mia giacca non sarebbe finita mai nessuna medaglia ma intanto ero lì. 
Ricordo il profumo delle mazzate. Il sapore della vigliaccheria. I lampi di eroismo. A volte si vinceva semplicemente non perdendo.
Parlando la sera con quelli rinchiusi scoprivo che in molti, anche avendone la possibilità, non sarebbero mai andati via. Non avrebbero mollato il fortino per nulla al mondo. 
Assurdo. Non capivo. Li guardavo come si può guardare Salvini in qualsiasi contesto.
Io no, cavolo.
Io me ne sarei andato in ogni preciso istante. 
Non capivo quel fortino. 
Non capivo quella follia della resistenza. 
Non capivo che cazzo ci facevo io lì e accusavo i miei di avermi buttato in quella mischia più grande di me e di ogni cosa che sarei mai potuto diventare.
Non riuscivo a comprendere quell’accanimento terapeutico nei confronti di un luogo che stava morendo e che di lì a poco avrebbe portato con se tutti noi. 
Non serviva una mente eccelsa per capire che la battaglia era persa eppure si combatteva semplicemente restando lì e non mollando su nulla. 
Ma il tempo passava e quelli fuori diventavano sempre più cattivi e noi sempre più fessi.
A tal proposito, storia di vita vissuta.
Sono cresciuto con il consiglio di mio padre che spesso mi diceva:”Ricordati che a Napoli è difficile che per strada s’incontrino due fessi e uno sei sempre tu.”
Quel fortino, amici, era Napoli. 
Quelli circondati erano quelli sani. Quelli coraggiosi. Quelli in eccesso. Quelli silenziosi.
Quelli fuori erano quelli che Napoli la fanno a pezzi e che passo dopo passo prendono spazio, aria, credibilità e visibilità.
Anche io, uno dei tanti, ero alla fine destinato a combattere quella battaglia per sempre, come i miei e tutti quelli prima di loro.
Poi, un giorno, come in tutti i film del genere, un comandante cerca un volontario con il compito di scappare per portare a chissà chi un messaggio che in genere è sempre del tipo “non c’è più niente da fare”, oppure “servono rinforzi” oppure “Il Napoli domenica che ha fatto?”
Quel giorno, incredibile a dirsi, toccò a me e io scappai senza sentire nemmeno il messaggio che avrei dovuto recapitare.
Scappai cercando di sfuggire al nemico. Scappai senza voltarmi indietro. Scappai senza vergogna, perché stavo salvando la pellaccia. 
Ma non scappai solo da tutto quello.
Scappai anche da tutto quello che avevo difeso in tutti quegli anni. Lasciai sulla mia branda ogni pezzo di quello che ero.
Punto e accapo. 
Sono passati ormai vent’anni da quel giorno ma quell’odore di fuga continuo a portarmelo dentro. È un tanfo che ogni giorno bussa sempre più forte alla mia porta. 
Per anni ho vissuto facendo finta di niente. Pensavo fosse il vicino. Sono andato avanti  resettandomi. Integrandomi. Mai rinnegandomi, però, nonostante qualcuno possa pensare e credere il contrario.
Nella mia nuota vita, mi sono incazzato per i sanpietrini che con la pioggia saltavano via e per i pellegrini che la domenica bloccavano la capitale.
Successivamente mi inalberavo se il Po esondava o se in inverno cadeva poca neve e non potevo andare a fare la settimana bianca. Che poi chi l’ha mai fatta…
Di quel fortino, di quella battaglia, di quelli restati lì a combattere ho provato  a dimenticarmene. 
In fondo scappare era sempre stato il mio sogno e lo avevo realizzato. E poi idealizzato. 
Perché lentamente, invecchiando forse, sono riemersi come quei reperti archeologici che saltano fuori durante uno scavo della linea della metro. La polvere è caduta da tutti quei mattoni e quelle fessure che avevo lasciato lì e che in fondo erano lì ad aspettarmi.
Ho cominciato a ricordare quel fortino. Ho riscoperto quei volti restati in trincea a difendere un valore, una cartolina, una dignità costantemente attaccata e violentata. Li ho immaginati sporchi di polvere senza esserci in fondo mai caduti. Li ho visti con una dignità che mi ha fatto sentire un codardo. Perché scappare è semplice quando le cose vanno male. Restare e resistere non è da tutti. 
Eppure, anche se quelli restati lì non ci crederanno, quella battaglia io non l’ho mai davvero dimenticata. Ho continuato a combatterla da lontano. Ho continuato a difendere quelle fragili pareti ogni istante, quando qualcuno mi ricordava quello che ero o da dove venivo. Quel fortino l’ho portato in ogni luogo nei quali sono stato e non sono mai uscito da lì veramente. Per uno nato nel cuore di quel disastro da difendere è impossibile dimenticare. Mi sono mosso sempre in spazi limitati da qualcosa o da qualcuno. Spesso erano parole. Altre volte silenzi. O sguardi. Strette di mano solo ad invito. 
E riscopri, anche se non era necessario, che spesso fai parte di qualcosa che è altrove.
Noi, quelli circondati, veniamo alla luce con la certezza che per salvarci dovremo (momento che nasce esattamente dopo la comparsa del primo dentino), trovare il modo di fuggire. Altrimenti non c’è speranza e senza speranza non c’è futuro e senza futuro i verbi li puoi usare solo al presente, e mi dici come diavolo fare a progettare se puoi parlare sono all’oggi?
Qui, lontano da quella eterna baraonda, questa cosa non sanno nemmeno cosa sia, perché qui al massimo devono spostarsi da un quartiere all’altro. E in tanti non capiscono come tu, prima del treno, non abbia provato il bus. 
Noi no. Noi fuggiaschi nasciamo a forma di boomerang. L’unica differenza è che alcuni nascono con la forbice attaccata al cordone ombelicale e altri no. 
Tutto qui. 
Ma lo so, non c’entra nulla con tutto quello che quelli rimasti lì hanno provato. E provano. E di certo non voglio vantarmi di imprese che non ho contribuito a realizzare ma volevo che “quelli”, gli accerchiati, venissero a conoscenza che ogni volta che in Tv sento dell’ennesimo attacco respinto a quel rimasuglio di teste alte, mi sento orgoglioso.  E volevo che sapessero anche che ogni cosa nella vita ha un prezzo, anche la fuga. E si paga con una moneta poco appariscente e luccicante e non sempre accettata. 
Di quello che hai dovuto lasciare non frega niente a nessuno. Di quello che hai dovuto seppellire, idem.
Ma fa nulla. 
E volevo che si convincessero, anche, del fatto che un giorno arriverà veramente ad ognuno di noi una lettera nella quale ci ordineranno di tornare in quel fortino e di rifare il percorso inverso, nella speranza che anche le cose che ognuno di noi ha perso o ha doluto abbandonare, possano farsi ritrovare. 
Di certo quella lettera è partita con noi. Forse è il messaggio che dovevamo consegnare, chissà.
Forse è un modo come un altro per dire che siete molti di più di quelli ammassasi e circondati lì. 
Vincenzo P.



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